Circolo Culturale e Amici di San Piero in Campo
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La Cava
Carlo De Stefani, professore di geologia dell’istituto di studi superiori di Firenze, nel 1907 affermava che la migliore prova di eccellenza del nostro granito è data dall’esperienza millenaria, dalla straordinaria antichità delle cave e dalla importanza dei lavori che ne furono eseguiti. Sette delle colossali colonne di granito (alte metri 12,36 - diametro m. 1,50) del Pantheon provengono dal nostro territorio. Diciotto colonne secondo Noten si trovano nella cattedrale di Aquisgrana. Fra l’XI ed il XIV secolo i Pisani fecero nuovi scavi e portarono a Pisa molte colonne probabilmente abbandonate dai Romani. Anche lo scultore Pietro Tacca fu interessato alla nostra pietra e con essa realizzò le famose “tazze” che si trovano a Boboli. Ma fu a partire dal 1840 che inizia lo sfruttamento industriale del Granito, prima in maniera modesta ma dalla fine dell’ottocento sino alla seconda guerra mondiale in maniera massiccia. In questo periodo gli occupati nelle cave furono diverse centinaia. Avvenne anche un imponente flusso immigratorio di scalpellini  soprattutto dalle zone di Carrara, Empoli, Signa e Montelupo Fiorentino. Alcuni cognomi ancor oggi numerosi (Rocchi, Pantani, Mari) sono da riportare a quel periodo. Si tagliavano i massi e si producevano scalini, basamenti per monumenti, portali, colonne, cigli, lastre per piazze.In ogni cava c’era sempre il fabbro che alla forgia preparava le punte, gli scalpelli, i panciotti, gli scapezzino. Altri attrezzi erano la bucciarda, il mazzolo, la mazza, il macaco e la stampa che serviva per fare i buchi per le mine. Manufatti delle nostre cave prodotti in tempi abbastanza recenti si trovano alla stazione Santa Maria Novella e allo Stadio di Firenze, nel palazzo dei congressi e in quello della civiltà e del lavoro all’Eur in Roma ed in tante altre città d’Italia e d’Europa.

Il forno ed il fornaio
Il forno inteso come luogo di produzione giornaliera e di vendita del pane è una consuetudine abbastanza recente nella nostra comunità. Sino agli inizi del novecento nei paesi erano diversi i forni, ma non costituivano attività commerciali. Nelle case di campagna, i famosi magazzini, il forno era un elemento architettonico fondamentale. Spesso non c’erano le camere da letto, si dormiva o sul pavimento o in mezzo alle botti, ma il forno ci doveva essere. Le nostre nonne ogni sei o sette giorni facevano le picce, il biscotto, il pinzino (con i fichi secchi), la schiaccia (pane fatto con farina e patate), ed a detta dei consumatori questi tipi di pane erano più buoni dopo qualche giorno.....forse era la fame.

Il magazzino
Giulio Pullè nella sua monografia agraria del circondario dell’isola d’Elba del 1878, afferma che nel 1839 alla coltivazione della vite erano interessati quasi 5000 ettari, che le viti ammontavano a 32.437.000 e la produzione vinicola era stata di 185.725 barili di 120 libbre toscane ciascuno in ettolitri 76.268. Centro di raccolta delle uve e luogo di trasformazione in vino era il magazzino. Le uve si pestavano con i piedi (si zampicavano), in gabbie di legno disposte sopra i palmenti, pile di muratura a base quadrata o rettangolare, alte da uno a due metri e larghe due metri. In questi contenitori avveniva la fermentazione che si protraeva da quattro a sei giorni. Dopo, il vino dal palmento passava attraverso un buco, precedentemente tappato, nella tina e il mosto dalla tina si metteva nelle botti che erano state insolfate. In esse il vino continuava a fermentare fino a novembre per essere poi tappato ermeticamente. Le vinacce si appondavano, cioè si mettevano sotto un grande peso (il sasso di leva). Si trattava di una grossa pietra circolare quasi sempre di granito appesa ad un robusto palo che veniva conficcato in apposito incastro praticato nel muro e che premeva sulla catasta di tavole disposte sulle vinacce. Tutto questo dava luogo all’antico processo del pondo.

Il caprile
Era costituito da due elementi architettonici ben precisi: il recinto, un muro a secco alto circa un metro, abbastanza largo con una sola apertura che costituiva l’ingresso. Attaccata al recinto sorgeva la capanna. Talvolta era più distante ma non molto. Soltanto nei caprili di Masso alla Guata e delle Mure capanna e recinto sono distanti di circa duecento metri. Il materiale di costruzione era costituito da blocchi di granito, non grossi, quasi scaglie, non murati ma a secco. Il tetto e la cupola erano costruiti in maniera che l’acqua scivolasse e non entrasse nell’interno e così pure il fumo del fuoco acceso per far bollire i caldari del latte usciva senza che fosse necessaria una cappa fumaria. Il caprile era il posto per la trasformazione del latte nei due prodotti caseari tipici della nostra zona, la ricotta e la caciotta. Il recinto veniva utilizzato come ricovero temporaneo delle capre e la capanna, come già detto, per accendervi il fuoco per far bollire i caldari ricolmi di latte e per il ricovero degli attrezzi. Come ricovero notturno, nell’ottocento,  furono costruite alcune stalle, le più note quelle di Moncione e delle Puete. Tra i quarantasei caprili del Comune di Campo nell’Elba l’unico a due capanne, ancor oggi ben conservato, è quello delle Macinelle.

La vigna
L’attività economica fondamentale della nostra comunità era l’agricoltura, o meglio, la coltivazione della vite, il cui prodotto finale - il vino -  era l’unico che veniva commercializzato.
Tutte le altre produzioni agricole servivano per la sussistenza del contadino. Sino al 1960 il nostro territorio si poteva definire quasi un’unica vigna. Vigne nei piani, vigne sulle colline e sui rilievi, dove anche nei luoghi più scoscesi i nostri nonni con precisione e perizia avevano realizzato i pianelli (terrazzamenti) per mettere a dimora le viti.

 

Il mulino
I nostri antichi mulini erano ad acqua e abbastanza numerosi nel territorio del nostro comune. Erano formati da un edificio piuttosto grande, che conteneva gli strumenti di macinazione e da un grosso contenitore di acqua alimentato dai fossi che si chiamava buttaccio. Solo nel tratto Sant’Ilario, la Lamia, lungo il fosso delle Calanche, ve ne erano sette. Ma il più importante, dotato di sistemi di macinazione modernissimi per l’epoca era quello di Moncione. Non essendo state collegate le sorgenti all’acquedotto per Portoferraio, il fosso dal quale veniva alimentato, non seccava durante l’estate. Ad essi si portava il grano trebbiato nelle aie con il trebbio, grossa palla di ferro o di granito trainato da asini, che diventava farina bianchissima ma anche le castagne al sole e successivamente anche il granturco.

La carbonaia
La Legna utilizzata per costruire la carbonaia era la scopa, il leccio ed il corbezzolo.Si costruiva con pali di leccio messi per ritto alti circa m. 1,60 – 1,80, un cerchio del diametro di. 0,80 – 1,00 m. chiamato foro e costruiva il cuore della carbonaia. Intorno ad esso venivano messi tronchi fissi, quasi a formare una cupola. La base era protetta da un calsolo di sassi. Successivamente la carbonaia veniva ricoperta di terra e rucia. Il foro veniva riempito di piccoli pezzi di legno e rametti. Alla fine si dava fuoco. Alla base venivano fatti dei fori come prese d’aria. Ogni tre o quattro ore il foro doveva essere alimentato con pezzi di legni e veniva chiuso con un pezzo di lamiera. La carbonaia doveva cuocere circa cinque giorni. Cinque giorni e cinque notti durissime per il carbonaio che doveva controllarla. Era lui che doveva, secondo la sua esperienza, governare questo processo di combustione aprendo e chiudendo cagnoli e fori d’aria. La trasformazione del legno in carbone è una distillazione a secco. Vengono eliminati parti insignificanti per il valore combustibile come l’acqua, l’aceto ed il catrame di legno. Rimane il carbonio.
Un grosso pericolo per la carbonaia era rappresentato non tanto dalla pioggia quanto dal vento forte che poteva scoprirla e spargere nel bosco intorno legni accesi con il rischio di provocare incendi. Quando il colore del fumo da bianco diveniva scuro quasi violaceo significava che il carbone era pronto, ma doveva essere coperto con terra setacciata perché si raffreddasse. La scarbonatura, cioè la separazione tra il carbone e la terra, veniva fatta prima con il bidente e successivamente con un grosso rastrello detto rastrellone.  Il prodotto finale era fragile come cristallo ma con esso si potevano raggiungere per la combustione temperature elevate. Quindi elemento indispensabile per la vita e l’economia dei nostri progenitori.

I pescatori
Sebastiano Lombardi, nel suo libro “Memorie antiche e moderne dell’isola d’Elba”, pubblicato a Firenze nel  1791, dopo aver parlato diffusamente delle due tonnare presenti nel territorio dell’isola cosi continua “diverse altre pesche si fanno in varie stagioni e oltre i pescatori paesani, vi concorrono napoletani, genovesi, corsi ed altri…“. I genovesi erano espertissimi nella pesca delle sardine ed acciughe, che salate e conservate in barili, venivano poi vendute a Livorno e come ringraziamento ogni barca faceva offerte, in base a quanto realizzato, al santuario di Montenero. I napoletani praticavano soprattutto la pesca del palamito, sciapica e successivamente del tramaglio. Come esca usavano un particolare tipo di pesce, oggi quasi scomparso, la castardella abbondante allora, pescato nel canale tra l’Elba e Pianosa. I corsi famosi per la pesca alle aragoste abbondanti in quel tempo e famose in tutto il Mediterraneo. A comprarle una volta pescate venivano velieri sia da Nizza che da Marsiglia. Queste varie tipologie di pesca si amalgamarono tra di loro, come pure si integrarono i pescatori locali con quelli venuti da lontano. Tanto è vero che Eugenio Brashi nella sua coreografia dell’isola d’Elba – manoscritto del 1939 – indica il porto di Campo come importante punto di pesca. La pesca ha continuato fino ad oggi ad essere un’importante fonte economica per la nostra comunità. Quelli che precedentemente ho definito pescatori venuti da lontano sono continuati ad arrivare portando non soltanto nuove tecniche di pesca ma apportando anche arricchimento, con la loro formazione culturale e le loro tradizioni, al nostro modo di essere. Ed ora una notizia curiosa. A fine ottocento, per qualche anno durante l’estate, il nostro mare si riempiva di imbarcazioni  greche per  pescare le spugne, presenti nelle rocce del nostro mare; ad essi probabilmente si deve l’introduzione dell’uso dello specchio, cioè quel grosso cilindro con il fondo di vetro, indispensabile per vedere il fondo del mare.

La casa
La stanza più importante della casa era la cucina. In essa infatti si può affermare che si pensava per lo meno a livello di organizzazione e programmazione ad affrontare il lavoro sia per il ricavo economico ma soprattutto per la vita di tutti i giorni. In una delle pareti di lato all’ingresso sorgeva il camino, che oltre al focolare vero e fuoco ai lati, conteneva due fornelli. Durante l’inverno il focolare oltre che a cuocerci i cibi serviva per riscaldarsi, quindi vicino ad esso oltre che a piccoli fasci di scopa, mucchi, c’era una piccola catasta  di ceppi di scope, tronchi di leccio e di legna più consistente. I fornelli laterali erano usati durante l’estate e nelle stagioni più miti e vi si usava il carbone. Ma dopo cena durante i mesi invernali il camino diveniva anche un elemento di aggregazione. La famiglia vi si riuniva intorno spesso con altri nuclei familiari ed alla luce del fuoco, qualche volta aiutati dal lume a petrolio, si raccontavano storie passate, talvolta qualcuno più fortunato che sapeva leggere, leggeva agli altri qualche vecchio giornale o un libro. La regina della casa era la donna, o meglio le donne. Mamme, figlie, nipoti, si trovavano a sferruzzare, preparavano le maglie, i calzinotti (quelle rozze calze di lana), tagliavano le stoffe di peloncino e di fustagno, successivamente le cucivano per prepararci camicie, calzoni e giubbotti. Si  preparavano le conserve sia di pomodoro che di verdure. Qualche volta anche la marmellata. Controllavano le fave, i ceci, i fagioli secchi ed i fichi secchi, alimenti importantissimi per il lungo inverno. Nella camera oltre al letto, c’era sempre un baule di legno che conteneva il piccolo corredo che ogni donna doveva portare in dote e un armadio chiamato guardaroba dove si conservavano i pochi vestiti.  La camera era quasi sempre su un piano più elevato rispetto alla cucina e con una porta esterna su un piccolo ballatoio collegato con il piano inferiore da una scala, quasi sempre di granito con a lato un muretto particolare chiamato murella.

L’arrotino
Un’altra figura importante sia per la vita che per l’economia di quegli anni era l’arrotino. Con una ruota di pietra (detta mola) nella quale era inserita in un buco una manovella particolare, fermata con delle zeppe di legno. L’arrotino girava ogni tre o quattro mesi, per i paesi e le campagne. Coltelli, pennati, ristaie, coltelli da innesti, pennatelle indispensabili per la vendemmia, ma anche forbici da pota venivano perfettamente arrotati. Con il passare del tempo la mola fu  inserita su una specie di cavalletto e veniva azionata da un pedale. L’ultimo arrotino, scomparso recentemente, era solito girare con un vecchio topolino giardinetta e la mola veniva fatta girare dalla dinamo dell’automobile.

 




Il cestaio  o panieraio

Cestoni-ceste, panieri e paniere erano contenitori estremamente importanti sia nella vita di tutti i giorni che nelle attività lavorative. I cestoni servivano per portare i concimi naturali dal luogo di produzione  sino alle coltivazioni che dovevano essere concimate. Le ceste erano indispensabili durante la vendemmia: vi si poneva l’uva raccolta per metterla successivamente nei tinelli, contenitori abbastanza capaci, che servivano a portarla poi al palmento. Panieri e paniere servivano per raccogliere la frutta, i fichi, ma anche ai pescatori per portare il pesce dalla barca ai luoghi dove veniva venduto. Ceste e cestoni venivano costruiti intrecciando (formando una base e su di essa pareti quasi circolari) le stiappe che erano delle sottili strisce di polloni di castagno. Anche il paniere, più piccolo della cesta, era fatto con le stiappe, ma era dotato di un manico fatto con i vincoli di mortadella e ontonella.  Le paniere invece avevano una base ellissoidale di legno e le pareti erano fatte con le stiappe, ma con listelli di canne ed il manico era sempre con i vincoli. Il realizzatore di questi contenitori si chiamava cestaio o panieraio. Probabilmente il modo di costruire questi contenitori fu portato nella nostra comunità dai cosiddetti lombardi a fine ottocento, che poi non erano lombardi, ma venivano a lavorare qui da noi durante i mesi invernali e primaverili dall’Appennino modenese.

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Ultimo aggiornamento: 25-04-08

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